Il ponte di San Luis Rey

 Il senso profondo di un fallimento 
Luca Doninelli 

Il ponte era lì da chissà quanto tempo. Una passatoia di assicelle sostenuta da liane intrecciate, come quelle che si vedono in certi film con Indiana Jones. Un giorno il ponte si spezza mentre cinque persone lo stanno attraversando. Un fraticello, Fra’ Ginepro, assiste per caso alla tragedia, e una domanda attraversa la sua mente ingenua: perché proprio quei cinque? O la vita umana si svolge all’insegna del caso, oppure, se un disegno divino esiste, potremo rintracciarlo nelle vite di queste persone. Ha inizio così per Fra’ Ginepro un’interminabile raccolta di documenti, fin dentro i particolari più insignificanti, alla ricerca di un senso compiuto. È l’idea fulminante che Thornton Wilder, trentenne, trasformerà nel 1927 in uno dei romanzi più vividi, più freschi, più originali del Ventesimo secolo, Il ponte di San Luis Rey. Il progetto di Fra’ Ginepro fallirà (com’era prevedibile): «L’arte della biografia», osserva Wilder non senza ironia, «è più difficile di quanto generalmente si pensi». Ma c’è un senso profondo nel suo fallimento, ed è anche il senso di tutto il libro. La struttura è geniale e sarà imitata da altri in seguito, per esempio ne Le correzioni di Jonathan Franzen. I capitoli seguono ciascuno uno o due dei personaggi coinvolti nel crollo del ponte, più un capitolo finale. Non sono vite isolate, le biografie si intrecciano, si arricchiscono, si negano vicendevolmente. Non ci sono segni di coerenza, la realtà si sottrae ai modelli teologici, la vita emerge più ricca che mai dalla ricerca. Eppure le domande di Fra’ Ginepro non andranno a vuoto, come non cadranno nel vuoto le vite delle povere vittime. La conclusione è geniale ma non detta a chiare lettere. Wilder non “dice”, non dichiara, ma piuttosto “manda a dire”. È necessaria la libertà di chi legge. Un solo indizio. In questi giorni tragici la morte accompagna di continuo le nostre vite, talvolta toccandole in prima persona, più spesso accompagnandole nella cronaca quotidiana, fin da quando accendiamo la radio, la mattina, in macchina. Si moltiplica così l’esperienza di una rottura, di uno schianto quasi assurdo: la morte è come una frase interrotta a metà, e raccontare una vita vuol dire cercare di indovinare il pezzo di frase che manca. Si tratta allora di decidere se quel pezzo di frase esiste o no. In altre parole: siamo nati per morire, come hanno detto alcuni filosofi, o siamo nati per nascere, al punto che, anche mentre moriamo, qualcosa ricomincia a vivere? 

Thornton Wilder 
Il ponte di San Luis Rey Sellerio 
pp. 248 - € 14